C’è chi va al cinema per cercare emozioni forti, e poi c’è chi esce da Warfare con lo stomaco rivoltato e le orecchie che fischiano. Alex Garland, regista che ha già dimostrato di non avere paura di disturbare (Ex Machina, Annihilation, Civil War), qui abbandona ogni pretesa di metafora e va dritto al cuore della faccenda: la guerra come esperienza sensoriale estrema, senza politica, senza (troppi) patriottismi e senza stucchevoli sensazionalismi che, a partire dagli anni 90, hanno fatto perdere credibilità ad un genere che in passato, soprattutto tra gli anni 70 e 80, aveva regalato tante perle cinematografiche.
Dimenticatevi il soldato eroe, dimenticatevi il melodramma familiare e pure i discorsoni sul senso del sacrificio. Warfare è un’ora e mezza di pura apnea. Si entra a Ramadi, Iraq, nel 2006, insieme a un manipolo di Navy SEAL, e si resta lì, schiacciati dal tempo reale, con l’angoscia che ti scava dentro a ogni colpo di mitragliatrice. Non c’è una trama da seguire, non c’è nemmeno un “perché”. C’è solo il presente, ed è un presente che puzza di polvere da sparo, sangue e paura.
Una regia che non fa ostaggi
Garland e Ray Mendoza (ex SEAL, co-regista e autore delle memorie che hanno ispirato il film) fanno una scelta radicale: niente fronzoli, niente spiegoni, zero retorica. La macchina da presa non si ferma a commuoversi, non si concede mai al lirismo. Il montaggio è serrato, il sonoro un’arma puntata alla tempia dello spettatore: esplosioni che ti fanno sobbalzare sulla poltrona del cinema (sì, perché è proprio al cinema che riuscirete a godervi al meglio l’eccellente lavoro fatto con il sonoro), silenzi improvvisi che diventano più agghiaccianti di un’esplosione. È cinema che ti obbliga a subire, non a contemplare.
Se pensi di trovarti di fronte lo spettacolo patinato alla “Salvate il soldato Ryan”, sei fuori strada. Qui non ci sono eroi (e per fortuna non c’è neanche un quasi immortale Tom Hanks), ma un’ossessiva cronaca del caos, una spirale di stress che sembra non avere uscita. È cinema da trincea, sporco, fastidioso, e proprio per questo tremendamente onesto.

Attori? O pedine?
Il cast è composto da giovani promesse e volti noti, ma non aspettatevi personaggi memorabili. Garland li vuole anonimi, intercambiabili, quasi privi di identità. Non ci sono backstory strappalacrime, non ci sono dialoghi profondi. Sono corpi in uniforme che respirano, sparano e cercano di non morire. Per qualcuno sarà un limite, per altri un colpo di genio: l’obiettivo è mostrare la guerra come annullamento dell’individuo, e sotto questo punto di vista il film colpisce nel segno.
Guerra senza politica: scelta coraggiosa o vigliaccheria?
Ed ecco il punto più controverso. Warfare evita accuratamente di schierarsi. Nessuna bandiera, nessun discorso, nessun contesto geopolitico. Solo guerra, nuda e cruda. Alcuni critici hanno gridato allo scandalo: come si fa a raccontare l’Iraq senza parlare di Iraq? (Anche se la questione delle vittime civili non è del tutto ignorata, anzi).
La verità è che questa neutralità può sembrare una fuga, ma è anche la forza del film. Garland non vuole convincerti di nulla, non vuole offrirti un’ideologia: ti scaraventa nel mezzo dell’inferno e ti dice “arrangiati”. È una posizione rischiosa, perché può sembrare disimpegno, ma è anche un atto di sfida verso il genere bellico, spesso appiattito su retoriche facili.

Dimenticate tutti i precedenti film sulla guerra
non pensiate che sia un film “facile”: la sua forza è proprio nel suo rifiuto di compiacere. Nessuna colonna sonora a guidarti, nessun climax liberatorio. Solo un accumulo lento, soffocante, che ti lascia esausto e senza risposte. In un panorama dove anche i film di guerra più cupi finiscono per avere una forma di spettacolo, qui siamo di fronte a un atto di sabotaggio contro il genere stesso. Warfare non sarà un film da amare o da odiare, è un film da sopportare. È un’esperienza fisica, quasi sadica, che ti lascia spossato. Non uscirai pensando “che bei personaggi”, ma con la sensazione di aver respirato per un’ora e mezza la stessa aria tossica dei protagonisti.
E forse questo basta: Garland non vuole aggiungere un altro tassello alla filmografia bellica, vuole togliere, grattare via, ridurre la guerra al suo scheletro.
no all’epico sensazionalismo, si allo spietato realismo
Garland sa bene che la guerra, oggi, non si racconta più con gli eroi e le bandiere. Si racconta con l’angoscia, con la ripetizione, con quell’interminabile e assordante silenzio che arriva dopo il fragore. Quindi se vuoi metterti alla prova e vedere cosa significa davvero un film di guerra che non ha paura di essere SOLO guerra, allora preparati: Warfare ti travolgerà, e non avrai scampo.


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