Quando Paul Thomas Anderson decide di affrontare il presente, non lo fa mai con leggerezza. Il suo cinema è sempre stato caratterizzato da antieroi, profonde ossessioni, tentate imprese e cocenti delusioni. Una battaglia dopo l’altra racchiude tutto questo all’ennesima potenza e in chiave più attuale rispetto ai sui precedenti lavori: è un film che respira con la stessa ansia del nostro tempo, che guarda al passato per rileggerlo, ma che si misura con le cicatrici del presente. Non un’operazione nostalgica, ne tantomeno la rappresentazione di un manifesto ideologico, ma il folle ritratto di una società che continua a combattere le stesse guerre, mutando soltanto i costumi e le maschere dei protagonisti.
Al centro della storia c’è Bob Ferguson (Leonardo DiCaprio), un ex rivoluzionario che in passato aveva militato in un famigerato gruppo radicale di ispirazione sovversiva, da sedici anni costretto a vivere sotto falsa identità con la figlia adolescente di nome Willa (Chase Infiniti). Bob, dopo tanti anni di vita vissuta nella repressione dell’anonimato, ormai risulta stanco e logorato, si veste come il Drugo Lebowski e passa le giornate tutto fatto a guardare film come La battaglia di Algeri (pellicola che verrà citata più volte nel corso della visione). Il classico anti-eroe: un personaggio che non ha risposte pronte, che non possiede più l’energia dei passati giorni di lotta e che non brilla per carisma infallibile. Anderson lo tratteggia come un uomo che conosce i propri fallimenti del passato e cerca di sopravvivere a questa nuova vita, tenendo sua figlia lontana dagli scontri che lo hanno consumato. Ma il passato oscuro, come in ogni grande tragedia americana, busserà alla porta sotto forma di minaccia presente, e lo trascinerà di nuovo nel vortice della rivoluzione.

E qui entra in gioco la figura più sorprendente del film: il colonnello Steven J. Lockjaw, interpretato da Sean Penn. Antagonista dichiarato, Lockjaw è il riflesso deformato delle stesse ossessioni che hanno consumato Bob. È un uomo che ha scelto la via opposta: la difesa ossessiva dell’ordine, del controllo, della supremazia. Il suo credo è la disciplina, la gerarchia, la purezza identitaria. Non è solo il cattivo di turno, è l’incarnazione di una radicalizzazione che non ha bisogno di sembrare sensata per risultare pericolosa. I continui tic nervosi, gli sguardi taglienti e gli improvvisi lampi di brutalità lo rendono un personaggio del tutto imprevedibile.
La performance di Sean Penn ha il merito di rendere Lockjaw indimenticabile. Ogni volta che Lockjaw entra in scena, il film cambia ritmo: il suo peso scenico porta con sé un’atmosfera più cupa, più serrata, come se il mondo intero si contraesse attorno alla sua figura. È un uomo che non ammette incertezze, e proprio per questo diventa il simbolo della paura che si trasforma in violenza sistemica. Anderson lo usa come specchio oscuro di Bob: se DiCaprio interpreta un uomo logorato che prova a resistere, Penn dà vita a un individuo che si è lasciato logorare fino a trasformarsi interamente nella sua ossessione.

La forza del film sta proprio nella contrapposizione di questi due personaggi così folli, portando il confronto non troppo sul piano “fisico”, ma soprattutto su quello ideologico. Ogni incontro tra i due porta con sé la sensazione che non si stiano affrontando solo due individui, ma due visioni del mondo. Anderson sfrutta questa tensione con sapienza, trasformando le scene d’azione in un potente veicolo emotivo. L’inseguimento diventa il simbolo dinamico del contrasto tra il desiderio di libertà e il peso delle proprie responsabilità. La colluttazione si carica di significato, rappresentando lo scontro viscerale tra due mondi che non possono coesistere. Nulla è fine a sé stesso: ogni gesto, ogni movimento, è espressione profonda di un conflitto interiore e ideologico.
Ma il film riesce ad andare oltre anche al duello tra protagonista e antagonista. Una battaglia dopo l’altra è anche una riflessione sul tempo, sulla trasmissione delle scelte da una generazione all’altra. La presenza di Willa non è rilegata a sbiadite scene di inutili sensazionalismi, è un personaggio fondamentale: la ragazza incarna l’elemento del futuro, una lente attraverso cui osservare la generazione successiva. Willa vede, decide, subisce e resiste: è un personaggio di azione più che di reazione e il film le concede momenti in cui la sua giovane intelligenza smaschera entrambe le fazioni riuscendo a mettere in discussione sia l’idealismo del padre oltre che l’ottusità fanatica di Lockjaw.

Dal punto di vista tecnico, Anderson firma una delle sue regie più controllate. La fotografia alterna spazi larghi, quasi deserti, a interni claustrofobici in cui i personaggi sembrano intrappolati. La colonna sonora di Jonny Greenwood è sempre presente, accompagna senza mai soffocare: lunghissimi temi costituiti da toni minimali, strappi improvvisi, armonie che si spezzano al momento giusto. Il montaggio privilegia l’accumulo: non è ritmo frenetico, è accumulo di tensione, come se ogni scena fosse una piccola carica.
Certo, la durata del film (quasi tre ore) può sembrare eccessiva, ma Anderson riesce a dare senso a ogni dilatazione, si concede tempo, e quello spazio si trasforma in scelta morale: rallentare significa osservare, e osservare significa non cedere alle semplificazioni. È proprio nella sua lentezza che il film riesce a far emergere gli inciampi, le contraddizioni, i cedimenti dei vari protagonisti. In un’epoca che preferisce l’immediatezza, l’opera chiede invece di restare, di farsi prendere dalla materia sporca delle relazioni. È un film che predilige la stratificazione alla frenesia.
Una battaglia dopo l’altra è un’opera ambiziosa, che riesce a incarnare le contraddizioni stesse della nostra epoca, mostrando quanto le stesse battaglie si ripetano in forme diverse: non sempre sono eroiche, non sempre sono giuste o sbagliate, spesso sono semplicemente ciò che resta quando il linguaggio politico si è rotto. Bob e Lockjaw sono due risposte all’identica domanda: come vivere dopo aver creduto così tanto?


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