Dopo una lunga assenza di quasi 10 anni dalle narrazioni puramente umane, Jim Jarmusch torna trionfalmente con un’opera che gli è valsa l’ambito premio del Leone d’Oro a Venezia. Il suo è, da sempre, un cinema dello sguardo più che dell’azione, un’estetica del margine dove la narrazione si sottrae all’urgenza per farsi osservazione pura. In questo nuovo lavoro, Jarmusch torna a mappare i confini invisibili dell’appartenenza, confermando la sua capacità unica di trovare il sacro nel profano e l’universale nel dettaglio più infinitesimale..
l film non segue una linea retta, ma si divide in tre capitoli autonomi, ambientati in luoghi e contesti diversi, tutti incentrate su relazioni familiari segnate dalla distanza, dal tempo e da ciò che non viene detto. Senza mai ricorrere a svolte narrative eclatanti, Jarmusch costruisce un racconto intimo fatto di piccoli gesti, dialoghi essenziali e silenzi carichi di significato, dove i personaggi si incontrano o si sfiorano più che riconciliarsi davvero. Il punto di contatto tra i capitoli risiede nella “liturgia del ritorno”, infatti la trama diventa il pretesto per esplorare quel territorio ambiguo dove il non detto pesa più delle parole e dove i legami di sangue sono messi alla prova dal tempo che è passato altrove, osservando il tutto con uno sguardo ironico e malinconico che richiama il suo cinema più classico: dai rapporti sospesi di Stranger Than Paradise alla quotidianità minimale di Paterson, passando per l’attenzione ai margini e a un tempo narrativo volutamente rallentato. Un film che sembra dialogare con tutta la filmografia di Jarmusch, confermandone la coerenza stilistica e tematica.

L’incanto del film risiede nella capacità del regista di elevare il quotidiano a rito. In ogni capitolo, Jarmusch inserisce delle inquadrature di skaters in rallenty che tagliano lo sfondo delle città. Non sono semplici intermezzi: il rallentatore trasforma la spinta sulla tavola in una fluttuazione metafisica, un modo per ricordarci che la giovinezza e la libertà sono stati d’animo che continuano a scivolare accanto alla stanchezza adulta dei protagonisti.
Questa cura del dettaglio si riflette in una messa in scena dove nulla è lasciato al caso, nemmeno la scelta dell’abbigliamento. Si nota spesso una sottile armonia cromatica, con colori di maglie abbinati tra personaggi che non si parlano da anni e che quando si parlano hanno evidenti problemi nel comunicare realmente. È un segnale visivo potente: nonostante le distanze emotive e le frizioni, esiste una sincronia estetica che suggerisce un’unione profonda, quasi cellulare, tra i membri della famiglia. È come se il colore fosse l’ultima lingua comune rimasta a disposizione di chi ha dimenticato come comunicare.
Il dialogo, quando emerge, è intriso di quell’ironia asciutta e un po’ surreale tipica dell’autore. Una frase idiomatica come “Bob’s your uncle!” diventa improvvisamente il fulcro di una scena, trasformando un banale modo di dire in una riflessione sull’imprevedibilità del destino. Tutto sembra risolversi con una battuta, ma è una leggerezza che nasconde una malinconia sottile. Lo stesso spirito attraversa i momenti di convivialità obbligata, come i brindisi senza alcol: gesti che imitano un rito condiviso senza aderirvi davvero fino in fondo, svuotandolo della sua enfasi celebrativa e lasciando emergere, al contrario, l’imbarazzo, la distanza o la fragile formalità del ritrovarsi.

Non è però un film pensato come porta d’ingresso ideale all’universo di Jarmusch. Father Mother Sister Brother richiede una certa familiarità con il suo cinema fatto di tempi dilatati e di narrazioni che procedono per accumulo di attese più che per svolte narrative. Chi vi si avvicina per la prima volta potrebbe avvertirne l’apparente distanza emotiva o scambiarne la leggerezza per rarefazione. Al contrario, per chi conosce e frequenta da tempo il suo sguardo, questo lavoro assume il valore di una variazione tardiva, quasi di un film-diario: non introduce nuovi temi, ma li osserva mentre invecchiano insieme ai personaggi, accettando che alcune domande non abbiano più bisogno di risposta.
Rispetto ai suoi lavori precedenti, qui Jarmusch sembra ancora più interessato alla fragilità dei ricordi. C’è una riflessione costante sulla memoria come atto creativo: i protagonisti ricordano versioni diverse dello stesso passato, rendendo ogni verità soggettiva e sfuggente. Non conta ciò che è successo davvero, ma come quel ricordo ha plasmato il presente. Father Mother Sister Brother ci insegna che la famiglia non è un porto sicuro, ma un oceano che bisogna imparare a navigare con pazienza, accettando che a volte l’unica cosa che possiamo fare è restare a guardare la luce che cambia, aspettando che il prossimo skater attraversi l’inquadratura.


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